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Il corpo che si allena, lo sguardo che oggettifica

Aggiornamento: 17 ott

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C’è una differenza abissale tra un corpo che esiste e fa, soggetto attivo, e un corpo che esiste per essere guardato, oggetto passivo. Nello sport, questa differenza dovrebbe essere pacifica, sacrosanta.

Femminile, maschile, senza genere, il corpo che si allena in palestra è un corpo che fa, è soggetto, esprime se stesso nei suoi aspetti più pratici, più fisici: forza, velocità, resistenza, flessibilità.

I gesti e i movimenti che il corpo attua in palestra sono standard, hanno tutti lo stesso significato: solleva un carico, spingi un carico, sposta un carico, muovi un arto, compi una certa serie di movimenti in un certo periodo di tempo, vai da A a B, per ricercare un adattamento fisico allo sforzo.

Eppure, quello che è scontato per gli atleti maschi (o percepiti tali), non è lineare per le atlete donne (o percepite tali). Se sei nello spettro della femminilità, improvvisamente i tuoi movimenti assumono una serie di significati diversi e la linea tra "atletico" e "allusivo" si fa labile (all'occhio di chi guarda).

Specialmente per le donne che praticano discipline come lo stretching, lo yoga o l'acrobatica, questo confine viene violato quotidianamente.

Parliamo di quei momenti di profonda connessione mente-corpo: un esercizio per l'apertura delle anche, un ponte che scolpisce e accentua l'arco della schiena, una spaccata, una posa acrobatica che richiede una flessibilità estrema. Per l'atleta (e per qualsiasi essere umano dotato di un minimo di intelligenza e buonsenso), sono atti di tecnica, di sfida, di apprendimento ed esplorazione dei propri limiti. Sono funzionali a un obiettivo: migliorare le prestazioni nella propria disciplina, prevenire infortuni, trovare un momento di pace interiore o anche solo divertirsi. Solo io, il mio corpo, le mie competenze e, al limite, il mio smartphone per fare un video (metti che quel dannato trick decida di uscirmi proprio adesso!)

Per una fetta di avventori della palestra, parliamo ovviamente dei mediomen, detti anche "etero basic" o "gianfranchi basici", questi stessi movimenti diventano tutt'altro. Diventano uno spettacolo involontario, i gesti di una donna che si sta facendo i fatti suoi filtrati attraverso una lente di sessualizzazione e oggettificazione che stravolge completamente il loro significato.

Lo sguardo insistente, le occhiate complici, i commenti sottovoce (e a volte neppure troppo). Quel fissare, mentre si è concentrate sul respiro e sulla postura, sguardi che non puoi fare a meno di notare perché, GIURO, fanno diventare l'aria più densa e ti deconcentrano e ti fanno salire il crimine e tirare giù i santi dal paradiso.

È un'esperienza frustrante, snervante e profondamente ingiusta. Finisce che sprechi un sacco di tempo a trovarti l'angolino della sala più nascosto, un muro che possa un po' coprire, un orario meno trafficato, oppure te lo vai a fare direttamente a casa, dove magari stai scomoda e hai meno spazio, ma almeno non devi litigare con nessuno.


E arriva, puntuale, la "soluzione" più ipocrita: non andare a cercartela, oh donna!

"Mettiti in un angolo nascosto.""Fallo a casa, se no che ti aspetti?""Usa vestiti meno aderenti." "Mettiti contro il muro". Frasi che ti senti dire un po' da tutti, dalle amiche e persino dai fidanzati, che a volte si permettono anche di essere gelosi delle attività svolte dalla compagna, perché , dopotutto, sei tu che stai lì col culo per aria. Questo ferisce e infastidisce più di tutti gli sguardi e commenti molesti del mondo. La mancanza di comprensione da parte del partner che, anzi, diventa geloso. "Non sarà che vuoi attirare l'attenzione di qualcuno, facendo certe pose?". Come se il problema fosse la libertà di movimento della donna e non il fatto che 'sti guardoni molesti dovrebbero mettersi, bo, del collirio a base di acido muriatico negli occhi e lasciarci tutte a vivere serene. Per dire.

Mi rendo conto che tutto parta da una volontà di proteggere, ma, in questi termini, è solo la solita, logora narrativa che, invece di affrontare il problema alla radice, sposta il peso della responsabilità sulla donna, invece che su chi attua certi comportamenti molesti.

Io, personalmente, detesto essere costretta a tenere costantemente presente questo sguardo esterno, perennemente consapevole di essere, per tanti, solo un oggetto. Non sarebbe nelle mie corde pensarlo ma le persone attorno a me fanno la loro parte, ed è così che quello che per loro è "solo preoccupazione per la mia incolumità" (i consigli di muri dietro cui nascondersi e abiti meno attillati da indossare di cui sopra, per esempio) per me diventa costante reminder di non essere solo un essere umano ma anche, grazie allo sguardo di qualcuno, un pezzo di carne ambulante, messo lì a fare da eye candy per qualcuno (quando va bene). Sta cosa mi leva proprio la gioia di allenarmi e per questo tendo a diventare molto nervosa e aggressiva se mi si suggerisce di invisibilizzarmi il più possibile, per evitare gli sguardi lascivi di taluni. Mi fa sentire come se non potessi essere umana e basta nemmeno per cinque minuti.

Nessuna dovrebbe doversi nascondere per praticare il proprio benessere. La palestra è luogo di pratica, non un set cinematografico interattivo dove soddisfare le proprie fantasie. Chiedere a una donna di modificare il suo allenamento, il suo abbigliamento, di limitare la sua libertà di movimento o di rinchiudersi tra quattro mura domestiche, significa privarla di uno spazio che le appartiene di diritto.

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Dov'è, allora, la soluzione reale?

La soluzione non è nascondere il corpo delle donne. È rieducare lo sguardo di chi guarda.

In questo l'onere non dovrebbe essere solo della donna (eterna figura di cura) ma dell'uomo (e della società in generale) che dovrebbe sforzarsi di imparare a disinnescare questo filtro sessualizzante automatico. Si dovrebbe riconoscere che un corpo femminile in una posizione di flessibilità non è un'invito, non è un'esibizione, non è un oggetto di desiderio. È un atleta al lavoro. È una ginnasta che sta perfezionando la sua arte. È una persona che sta semplicemente prendendosi cura di sé. Un essere umano che si fa i cazzi propri. Ancora più estremizzato: È UNA PERSONA. E basta. Un essere umano che esiste in uno spazio pubblico. Può risultare sconvolgente per tanti, il fatto di considerare un'entità femmina come, semplicemente, una persona che esiste e basta.

È un cambio di paradigma culturale che deve avvenire con una combo tra l'azione su chi è giovane e il coinvolgimento degli uomini che hanno già iniziato a decostruirsi.


Educazione e rispetto attivo, quindi: insegnare a guardare lo sport con occhio tecnico e rispettoso. Il corpo di un'atleta va osservato per la sua potenza, la sua grazia, la sua abilità. Il rispetto attivo significa distogliere lo sguardo se ci si rende conto di star disturbando, significa tenere per sé i propri commenti, significa intervenire se si vede un amico comportarsi in modo inappropriato.

Esatto amico maschio, qua devi essere tu ad acchiappare per orecchie i tuoi compari che si comportano da trogloditi, senza il timore di passare per quello che rovina il momento goliardia, educa i tuoi pari.


La prossima volta che vedi una donna in profondissimo stretch, sappi che non è un pretesto per il tuo sguardo. Anche perché, ti assicuro che soffrire su cinque o sei mattoncini di oversplit non è una cosa che fai per farti attaccare bottone dal gianfranco basico di turno, fidati.


Amica, è essenziale non farci intimidire ma pretendere, occupare il nostro spazio. Allenarci, fare quello che dobbiamo fare, senza chiedere permesso, senza chiedere scusa, redarguendo gli invadenti, quando necessario, redarguendo anche chi ci vuole bene e pensa di proteggerci invitandoci a limitare le nostre possibilità di movimento.

Con la consapevolezza che non siamo MAI noi ad essere sbagliate.


Quali sono le tue esperienze in palestra? Condividile con me nei commenti, la condivisione fa sentire meno sole.


Vale


 
 
 

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